Adam Żak SJ, Fede e giustizia. Le sfide ai cristiani dell'Europa Orientale, w: La Civilta Cattolica, 1991, IV p. 580-584.

 


 

 

1.         Il contesto postcomunista della problematica della giustizia

Una delle questioni più discusse nelle chiese dell'Occidente e dell'America Latina da almeno tre decenni è la situazione della giustizia - o meglio - dell'ingiustizia sociale e le sue conse­guenze per l'annuncio della fede nel mondo contemporaneo. Questa discussione non era e non è per niente accademica. Essa si è rispecchiata anche nei piuttosto numerosi documenti della Santa Sede. Bisogna ricordarvi per lo meno tutta una serie di eventi e di documenti succedutisi all'enciclica di Giovanni XXIII "Pacem in terris" (1963) e alla costituzione conciliare "Gaudium et spes" (1965) come p. es.: "Populorum progressio" (1967), "Octogesima adveniens" (1971), i due Sinodi Generali dei vescovi del 1971 e 1974 dedicati alla problematica della giustizia e dell'evangelizzazione con i relativi documenti. Sono da collocar­si nello stesso contesto della ricerca alcuni eventi: la Congregazione Generale XXXII dei gesuiti (1974/75) con il suo famoso Decreto Quarto che della congiunzione dell'annunzio della fede con la promozione della giustizia fa il punto centrale della missione del gesuita oggi; le assemblee generali dei vescovi latinoamericani a Medellìn (1968) e a Puebla (1979) con le relative discussioni sulla teologia della liberazione che è stata anche oggetto di due documenti vaticani del 1984 e 1986. I temi della giustizia sociale in connessione con l'annuncio della fede sono anche oggetto dell'insegnamento di Giovanni Paolo II non soltanto nelle sue note encicliche sociali, ma anche negli altri documenti dedicati ai classici temi teologici, dove l'analisi della situazione della giustizia nel mondo fa da sfondo al discorso propriamente teologico.

Nelle chiese dell'Ostblock tutto questo sviluppo è stato osservato per almeno due motivi con una certa diffidenza. Da un lato queste chiese hanno fatto una dolorosa esperienza che l'opinione pubblica occidentale ha politicamente manipolato o addirittura guardato con una certa sufficienza la loro lotta per la fede. Dall'altro lato i cristiani dell'Ostblock non erano in grado di capire il fascino che il marxismo esercitava su molti dei loro fratelli e sorelle nella fede in alcuni paese occidenta­li e in America Latina. Le conseguenze di questo sviluppo sono state rafforzate da un pluridecennale isolamento. Quando i contatti sono stati ripristinati si è sentita una doppia diffidenza: da un lato i cristiani del Europa centro-orientale venivano percepiti da una parte dei correligionari in Europa occidentale e in America Latina come arretrati conser­vatori o reazionari di destra e dall'altro lato i cristiani dell'Est li percepivano come irresponsabi­li alleati del marxismo. Questa reciproca diffi­denza ha influ­en­zato negativamente la possibilità di imparare dai rispettivi sviluppi avvenuti nel periodo postconciliare.

 

Vi è un'altra osservazione da fare, senza la quale non può essere descritta in maniera adeguata la situazione della giustizia. Per la gente in Ostblock tutto il campo di significati espressi nel linguaggio legato alla proble­matica della giustizia sociale è occupato negativamente da associazioni marxiste. Sono stati infatti i marxisti a monopolizzare il discorso della giustizia sociale. Basti ricordare che l'introduzione della dittatura è stato ideologicamente giustificato dalla necessità d'introdurre la giustizia sociale. Tutto ciò ha condizionato parecchio la recezione della discussione sul rapporto tra l'annunzio della fede e la lotta per la giustizia. Si evitava addirittura la parola stessa *giustizia+ e si parlava più volentieri di diritti umani, di soggettività dei singoli e dei popoli ecc. A causa di questi spostamenti semantici si rischia di far vincere i comu­nisti postumamente permetten­do che continui il loro influsso frenante sulla recezione della questione di giustizia e quindi l'isolamento da una delle più importanti esperienze della Chiesa contemporanea.

Dopo queste osservazioni dobbiamo necessariamente considera­re che nei paesi del socialismo reale il rapporto tra la fede e la giustizia si è realizzato come una congiunzione vissuta. E' mancata per ragioni di censura una larga riflessione filosofi­ca o teolo­gi­ca su questo argomento. La congiun­zione fede-giustizia è stata vissuta sotto condizioni di un'in­gius­ti­zia subita che ha fatto sì, che si è stabilita una comunanza dei destini tra la Chiesa e le società in cui questa era chiamata ad operare. Lo stesso tentativo di far affermare nelle nostre società l'ateismo fu percepito come una grande ingiustizia in quanto era legato alla dura repressione e alla sistematica umiliazione dei credenti. In questa maniera la difesa della fede stessa divenne spontanea­mente lotta per la giustizia. Dapprima si trattava di una lotta per i diritti della Chiesa che sotto l'influsso del Magistero e della crescita della sensibilità delle società civili per i diritti dell'uomo divenne lotta per i diritti umani. Da qui una parti­colare credibilità (rafforzata o rista­bilita) della Chiesa che le ha permesso di svolgere in alcuni dei paesi dell'Ostblock un ruolo di primo piano nel promuovere o nel sostenere i cambia­menti pacifici.

A questo punto bisogna osservare che, a diffe­renza dell'A­merica Latina, la comunanza dei desti­ni  con il popolo oppres­so non è stato l'obiettivo da raggiungere, ma piuttosto il punto di partenza. In Ameri­ca Latina c'è infat­ti - almeno così sembra - il pro­blema di rendere credibile la Chiesa agli occhi dei poveri, per poter camminare con essi verso una vita più degna sulla terra e verso la vita eterna. Nei paesi dell'Est invece si tratta di far fruttificare per il futuro - quello terrestre e quello eterno - una provvidenziale comunanza dei destini realizzatasi di fatto.

 

2.         La situazione della giustizia oggi - i compiti per domani

 

Siccome alle società postcomuniste in cui la Chiesa svolge la sua mis­sione oggi vengono chiesti grandi sacrifici economici, si potrebbe essere tentati a ridurre la questione della giustizia alla questione dell'equa distribuzione dei beni materiali. Una tale riduzione sembra però troppo pericolosa specialmente in un momento in cui si stanno definendo le strutture del nuovo ordine socio-politico. Una simile riduzione della gius­tizia alla giustizia distributiva sarebbe molto pericolosa. Ciò rafforzereb­be soltanto gli atteggiamenti rivendicativi già presenti, il che potrebbe favorire l'aumento delle tensioni sociali di cui profiterebbero soltanto excomuni­sti e demago­ghi. Il tempo dopo la svolta è dappertutto il tempo di un faticoso processo della precisazione di un nuovo ordine socio-politico. Questo processo non dovrebbe venir messo in perico­lo. Alla base degli atteggia­menti rivendicativi v'è non sol­tanto la sete della giustizia ma anche il desiderio dei consu­mi a più alto livello represso a lungo.

La tesi di questo articolo è la seguente: La situazione della giustizia nei paesi postcomunisti è determinata soprattutto dalle conseguenze dell'ingiustizia subita dagli uomini e donne in questi decenni. Le conseguenze materiali nel settore economico sono serie e molto vistose anche se non sono le più pericolose in quanto il rimettere l'ordine nell'eco­nomia dipende anche dal ristabilimento della giustizia in alcuni altri settori in cui le conseguenze dell'­ingiustizia sono più pesanti.

Quali sono dunque le conseguenze più serie delle ingiusti­zie subite dalla gente sotto il dominio comunista?

La prima conseguenza è una pesante malattia del lavoro. Sanare il lavoro e il mondo del lavoro è il compito irrinunciabi­le, se si vuole che le relazioni sociali nei paesi dell'Europa orientale evolvano verso la giustizia.

Che cosa si vuol dire quando si parla della malattia del lavoro? Il lavoro, soprattutto quello con­cettuale, ha smesso di porta­re qualsiasi frutto. Il contributo delle idee alla produzione e all'organizzazione del lavoro è stato (ed è ancora) ridotto al minimo. Questo stato di cose che umilia il lavoratore dalle nostre parti, gli ha fatto perdere la fiducia in se stesso, e lo ha com­plessato nei confronti degli altri. La soppressione del nesso naturale esistente tra il lavoro e il capitale ha fatto sì che lo sfruttamento del lavoro a assunto le dimensio­ni colossali. Perciò senza risanare il lavoro, che sotto le condizioni del socialismo reale è divenuto un'illusione, non è possibile il risanamento dell'economia. Da qui un preciso compito non soltanto verso le giovani generazioni ma anche uno per le giovani generazioni.

Nel processo del risana­mento del lavoro la nostra testi­monian­za di vita fondata sul lavoro assiduo e il nostro inse­gnamento riguardo alla dignità del lavoro sono indis­pensabi­li.

Un altra conse­guenza dei decenni della *costruzio­ne dell'unico giusto siste­ma sociale+ consiste in una malattia del linguaggio. Nella società uno non si fida dell'altro. La gente è divenuta più sospettosa che mai. Le parole contano poco, perché ne fu fatto un'abuso in quanto vennero usate per creare una colossale illusione che si spacciava per la realtà. La pratica della censura ha privato la gente del senso della partecipazione nella storia, e della possibilità di reagire agli eventi; la gente è stata manipolata a tal punto da collaborare alla costruzione di un mondo di illusioni. Nelle nostre società certi fenomeni che disturbavano l'immagine ideale del socia­lismo semplicemen­te sparivano sotto la forbice del censore. Nella coscienza comune non esistono p. es. gli ammalati di AIDS, i senzatetto, i vagabondi, i poveri ecc. In alcuni paesi poco o niente si sa sulla sorte delle minoranze, sulle migrazioni forzate di interi gruppi di popolazione. Oc­casioni per prati­care la solida­rietà non verbale sol­tanto non mancano. E' urgente contribuire a creare le condizioni per una nuova percezione delle realtà sociali.

 

Il singolo veniva considerato solo come membro di una collet­tività. Pure la Chiesa si rivolgeva al singolo per lo più come al membro di una nazione. Al singolo lo stato ideologico chiedeva soltanto la sotto­missione. Iniziativa non era ben vista. Il singolo era subordinato alla collettività

La malattia del linguaggio balza agli occhi quando osser­via­mo p. es. la politica, dove il sospetto sistematicamente sostitu­isce l'argomento. Con la malat­tia del linguag­gio si spiega anche la perdita di ogni autorità da parte della legge. Il mettere le etichette ai singoli e ai gruppi sostituisce la comprensione delle situa­zioni e delle intenzio­ni delle perso­ne. Si potrebbe continuare la lista delle forme in cui si presenta la malattia del linguaggio.

Da questa breve diagnosi si possono facilmente dedurre i compiti che attendono i cristiani. Una cosa deve essere parti­cola­rmente sottolineata: La guarigione del linguaggio non può avvenire con il monologo. Non c'è alternativa ad un dialogo sincero! In questo senso la comu­nità cristiana può svolgere un ruolo insostitui­bile. La ricostruzione della fiducia è possibile attraverso un'espe­rienza di autenticità all'interno di una comunità senza par­venze e senza burocrazia. Una comunità cristiana può con­tri­buire a far liberare nella gente le risorse insospettate.

Un'altra conseguenza dell'ingiustizia subita sono i pregiudizi - spesso molto profondi - verso gente diversa. Questa sembra essere una delle più negative conseguenze della dialettica applicata all'analisi sociale. Questa dialettica per funzionare deve stabilire le contradizioni. Se una contra­dizione non c'è, la si crea stabilendo il sospetto che qualche forza nascosta ma individuabile vuole invertire il giusto processo storico. Il rimasullo di questa dialettica dei sos­petti è il fatto noto a tutti di come è difficile gettare i ponti sopra le differenze nazionali, culturali, religiose ecc. Si pensi agli anacronismi nel trattare il problema delle minoranze etniche o religiose. A sentire certa gente sembra che il mondo sia pieno di congiure di forze oscure. L'intolle­ranza verso il diverso raggiunge il parossismo di una persecu­zione "giusti­fi­cata" dalla presunta difesa dei valori più santi. La dialetti­ca dei sospetti è veramente ognipresente. Alla presa di coscienza di questa "ognipresenza" della dialettica dei sospetti dovrebbe seguire la solida conoscenza di ciò che è diverso e l'apertura al dialogo. La Chiesa conciliare invita a conoscere e rispettare le diver­sità e a scoprirne la ricchezza. Per la Chiesa non c'è alternati­va al dialo­go! Sorge la domanda se le chiese nelle società postcomuniste sono all'altezza di questi compiti. Non hanno scelta, pena la propria credibilità, che finora è stata un dono provvidenziale di Dio.

 

3.         La Guarigione attraverso la fede e la guarigione della fede

 

La descrizione della situazione della giustizia, che a quanto pare è determinata dalle conseguenze dell'ingiustizia sopportata, getta anche un pò di luce sulla situazione della fede. Innanzi­tutto bisogna rendersi conto che i credenti non sono esenti dalle summenzio­nate conse­guenze demoralizzanti dell'ingiustizia. Qualche volta sono tra i più intac­cati. Si pensi soltanto al fatto che qualche volta i naziona­lismi più esasperati vengono propagati e praticati dalla gente che si crede molto pia. Con questo accenno voglio soltanto esplicita­re la seguente tesi: Il ristabilimento della giusti­zia richie­de una seria rifles­sione sullo stato della fede, poiché le conseguenze dell'ingiustizia hanno deformato la fede di molti christiani. La fede, o meglio il modo di credere di molti christiani, è bisognoso di guarigione. La Chiesa attraverso l'annunzio della fede può e deve aiutare l'uomo capace di parlare ed ascoltare a formare una comunità dialogica con Dio e con gli altri e a riacquistare la sana fiducia in se stesso. Ciò significa però per la Chiesa che essa, rinunciando ad ogni autoidealizzazione, ad ogni paternalis­mo deve diventare una comunità dialogica nella quale i credenti non verranno consi­derati né come molesti petenti della burocrazia ecclesiale, né come clienti di una ditta che offre i servizi sacramentali, né come massa di partecipanti ai grandi raduni liturgici che suscita la compassione. Sta venendo lentamente la consape­volezza che la Chiesa si è presa qualche malattia dal suo avversario e se ne comincia pure timidamente a parlare. La liberazione da queste malattie provocherà probabil­mente molte tensioni. Può anche accadere che nella Chiesa avvenga ciò che avviene nella socie­tà civile nella quale sotto il peso delle riforme sorge qua e là la nostalgia del mondo delle parvenze del socialismo reale, che cioè anche nella Chiesa non abituata ad un dialogo aperto si levino le voci, che stilizzino la benedizione della passata persecuzione in un immagine nostalgica della "vera Chiesa di una volta". In altre parole: perché la fede possa in maniera decisiva influenzare il processo di guarigione è necessario che venga rinnovata anche la fede dei credenti e il modo di lavorare e di vivere della Chiesa. I vescovi e i sacerdoti devono lasciarsi porre dai credenti delle scomode domande critiche come p. es. quelle che il Santo Padre ha espresso già nel 1987 parlando a Tarnów al clero polacco: "Sarebbe un vero dramma, se il modo di vita dei sacerdoti contribuisse ad alienare il clero dai credenti". La gente che viene da lontano deve poter trovare nella Chiesa il linguaggio, che tocchi i loro cuori. Perciò è ugual­mente neces­sario un serio discerni­mento sul linguaggio della predicazio­ne, sul modello di Chiesa che viene promosso ecc. Il punto di riferi­mento di questo discer­nimento non devono essere le insicurez­ze o le nos­talgie sperimentate, ma la strada maestra scelta dal Concilio Vaticano II. La questione della giustizia diventa una sfida alla Chiesa su un punto non periferico ma centrale della sua missione, cioè sull'annunzio della fede nel mondo moderno.